Che “Spatriati” fosse un bel libro, lo sapevano tutti quelli che lo hanno letto. Sul fatto che potesse arrivare in finale del premio Strega, per di più da favorito, non ci avrebbe scommesso nessuno, nemmeno il diretto interessato, Mario Desiati, tarantino, che ancora non crede alla notizia e che però si gode il momento. Con lui abbiamo parlato del libro, che è ambientato in Puglia, e del rapporto con la sua terra.
La danno favorito alla vittoria finale, ci crede?
«Si tratta della prima votazione, sono già contento che il libro sia ancora in giro da più di un anno. Si è instaurato un bel rapporto con gli altri 6 finalisti e con chi non ha avuto accesso alla finale, e questa per me è la cosa migliore di questi ultimi due mesi».
Perché “spatriati”?
«Lessi per la prima volta la parola “Spatrièt?” nel dizionario martinese-italiano scritto da Giuseppe Grassi, sacerdote e studioso martinese e poi nel dizionario “La parlata dei martinesi e altri ricordi” di Giuseppe Gaetano Marangi, avvocato e cultore delle tradizioni locali. È un termine che abbiamo usato diverse volte con un’accezione particolarissima: non sei come quello che dovresti essere. Che poi avesse la scwha finale, tipico suono neutro di molti dialetti meridionali che priva di genere e numero dà anche idea di come il dialetto possa considerarsi in tempo di dibattito sulla grammatica inclusiva, al passo col tempo».
“Spatriati” racconta chi resta e chi parte, la Puglia che cambia e quella che resta uguale a se stessa, le incomprensioni tra i genitori e i figli. Possiamo definirlo un libro che parla di contrasti?
«Ci sono anche quelli, soprattutto con il giudizio, la grettezza, il mondo delle convenzioni che sta stretto ai protagonisti».
Lei fa parte di quelli che sono partiti?
«In realtà sono uno che è partito e tornato, “Spatriati” è un libro di gente spatriata, ossia che non ha un centro chiaro, come scrive Leopardi in una bellissima lettera: “Mai contento, mai nel mio centro”».
Nel libro cita anche una frase di Camere separate di Pier Vittorio Tondelli: «Io volevo tutto, ma mi sono sempre dovuto accontentare di qualcosa». Pensa di far parte di una generazione che si è dovuta accontentare?
«Penso che tutti a un certo punto dobbiamo accontentarci se abbiamo aspirazioni che non possiamo permetterci. L’importante è capire quali sono i desideri giusti per noi».
A un certo punto del libro scrive di Berlino: una città in cui si è più felici che nel resto del mondo quando si è felici e si è più tristi quando l’umore volge al nero. È un messaggio importante: se siete tristi lo sarete ovunque, non dipende dalla città o dal territorio…
«A Berlino ho vissuto questa strana sensazione che quando ero euforico, sentivo moltiplicate le mie energie e la mia vitalità e non sono uno che si droga. Però le fasi depressive erano più difficili da sostenere, soprattutto in inverno, perché è una città con poca luce e fa buio alle due, ed è freddissima e ci sono milioni di anime morte. Si sente che è una città che ha vissuto la guerra e le conseguenze delle guerra che sono durate quasi cinquant’anni, finché il muro non è caduto».
“Le nostre origini ci rimangono addosso e quando ti spogli le vedi”: è un bene o un male?
«Le origini sono sempre un bene se sono sottoposte all’evoluzione».
Il protagonista del libro parte anche per “non rispondere a nessuno” delle sue tendenze sessuali. Siamo ancora a questo?
«Decisamente sì, e non è facile neanche in contesti così liberi come può essere la Germania. Anzi proprio ad Amburgo nel novembre del 2015 ho visto una coppia gay che veniva importunata per strada. Montaigne diceva che il sesso fa paura perché è un abisso, per difendersi gli uomini alzano la barriera del riso o del pudore. Forse basta solo accettare la propria identità e non spaventarla di vivere».
Nelle note di “Spatriati” ha scritto che «molti venditori di fumo hanno soprannominato la Valle d’Itria “Trullishire”». Non le piace la definizione?
«È abbastanza cacofonica, siamo la Valle d’Itria, Martina Franca, Alberobello, Cisternino, Locorotondo. Sono nomi così nobili e significativi. Preferisco i loro bellissimi nomi».
Ha dedicato il libro alla memoria degli scrittori pugliesi: quali sono a suo avviso i libri da leggere per conoscere e capire la Puglia?
«Ne dico tre fondamentali, tutti di scrittrici pugliesi, “Analisi in famiglia” di Maria Marcone, “Passaggio in ombra” di Maria Teresa di Lascia, “La Malapianta” di Rina Durante».
Come si sente quando torna a casa, a Martina Franca?
«Come tutti quelli che tornano. Felice e poi ansioso di andar via».
A quale dei suoi libri è più legato e perché?
«A questo, perché mi è costato molto e ne pagherò ancora le conseguenze».