Anche tre collaboratori di giustizia tra i 43 testimoni della pubblica accusa, rappresentata dalla pm antimafia Carmen Ruggiero al processo per l’omicidio del 19enne Giampiero Carvone, ucciso a colpi di pistola calibro 7,65 davanti alla sua abitazione in via Tevere al rione Perrino, nella notte tra il 9 e il 10 settembre 2019.
A processo in Corte d’assise è finito Giuseppe Ferrarese, 27 anni, arrestato il 27 giugno 2022 dopo una lunga inchiesta della squadra mobile. Risponde di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dall’aver commesso il fatto per agevolare le attività della Sacra corona unita, associazione di stampo mafioso. Nelle indagini sull’omicidio il ruolo di pentiti e collaboratori è stato fondamentale. Nel corso dell’inchiesta, alcune dichiarazioni di personaggi di spicco della criminalità organizzata pentiti e ora sottoposti a protezione e quindi diventati testimoni di giustizia sono state cristallizzate nel corso di un incidente probatorio.
Carvone fu ucciso, stando ai risultati delle indagini preliminari, per aver fatto il nome dell’attuale imputato indicandolo quale complice di un furto d’auto messo a segno delle persone sbagliate. «Muore fondamentalmente – scrisse il giudice delle indagini preliminari – per avere fatto “l’infame”, avendo riferito ad un uomo di spessore, assai temuto, i nomi dei suoi complici nel furto, tra cui proprio Ferrarese».
Il presunto killer era ai domiciliari perché accusato di essere l’autore di tre rapine quando gli fu notificato l’ordine di cattura per l’omicidio. Secondo le indagini della Direzione distrettuale antimafia di Lecce i due avevano rubato l’auto ad un soggetto brindisino legato da rapporti di parentela ad un noto esponente della criminalità locale. Quel furto scatenò una serie di reazioni violente.
L’omicidio di Carvone – secondo gli investigatori, insomma, non fu una reazione diretta al furto dell’autovettura ma la punizione di uno “sgarro”. La vittima, probabilmente per la sua giovane età, non aveva assimilato i contenuti del codice di comportamento mafioso, nei confronti dei suoi stessi amici e forse anche correi nell’episodio che aveva determinato le vicende delittuose». Fu insomma punito in stile mafioso per non avere coperto, secondo uno dei principi cardine della codicistica criminale, quello dell’omertà, quelli che da altra parte della criminalità venivano additati come gli autori di uno “sgarro” che, a prescindere dalle conseguenze, meritava di essere punito.