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Tagli, carenza di personale e boom di accessi. I sanitari: «Ci guida solo l’obiettivo di salvare vite umane» – VIDEO

“Asclepios”. Il plesso in cui sorge il pronto soccorso del Policlinico prende il nome dal dio greco della medicina. Centinaia di metri quadrati, dipinti di bianco e rosso, che emanano quel forte odore di disinfettante, tipico degli ospedali. A fendere quest’aria “pesante”, ogni giorno, ci sono, centinaia di persone che, chi dal lato “paziente” chi…

“Asclepios”. Il plesso in cui sorge il pronto soccorso del Policlinico prende il nome dal dio greco della medicina. Centinaia di metri quadrati, dipinti di bianco e rosso, che emanano quel forte odore di disinfettante, tipico degli ospedali. A fendere quest’aria “pesante”, ogni giorno, ci sono, centinaia di persone che, chi dal lato “paziente” chi da quello “medico”, giocano tutti la stessa partita: difendere la vita, salvarla a ogni costo, anche quando sembra impossibile.

Quando arriviamo, in attesa ci sono circa 200 persone. C’è chi si prepara al triage, chi attende il proprio turno e chi viene dimesso. Il tutto avviene in una sala d’aspetto dove ci sono una televisione accesa e una libreria. Una scelta inutile, si dirà. Ma non lo è, se a ispirarla è il tentativo di allontanare dal pronto soccorso, quanto più possibile, lo stigma di un reparto sotto stress, in cui sei solo un numero, un braccio rotto, un infarto al miocardo. «Abbiamo cercato di umanizzarlo», ci spiega il direttore, Vito Procacci. Certo, la tensione che si respira tra quanti si fermano in questa sala d’attesa è tanta. Ma quello che al di fuori è un gesto banale, come sfogliare un libro, aiuta i tanti accompagnatori ad “ammazzare il tempo”, a liberare la mente dall’agitazione, seppur per una frazione di tempo indeterminata.

Naturalmente, a farlo con più disinvoltura sono quelli i cui parenti vengono registrati con il codice bianco o verde, quelli meno urgenti, che, entrati nella sala d’aspetto a loro riservata, possono in ogni momento rivolgersi all’infermiere di processo. Oltre il camice viola, un sorriso li accompagna costantemente nel loro percorso. E la situazione non cambia nemmeno per i casi più gravi, i codici rossi e arancioni. Il “cuore” del reparto è destinato a loro: la shock room. E qui, il pronto soccorso assume le sue fattezze tipiche. A partire dall’acustica: il rumore delle macchine che sorvegliano i parametri vitali dei pazienti è continuo, costante, e paralizza chi non ci è abituato, perché restituisce quella sensazione di essere al confine tra la vita e la morte che, durante l’esistenza umana, chiunque tende a evitare. Eppure qui, infermieri, medici e operatori socio-sanitari si alternano giorno e notte, con turni così lunghi che alcuni, la differenza tra il giorno e la notte, non la sentono nemmeno più. «Paghiamo il dazio dei tagli alla sanità – continua a raccontare il direttore – e i pronto soccorso sono stati i reparti più penalizzati».

Già. Eppure, nell’immaginario collettivo, è al pronto soccorso che ci si rivolge, sempre, «Anche quando basterebbe rivolgersi al medico di famiglia», come ci dice il vicedirettore. Ma l’umanità, intesa nel suo senso più bello, quello che fa rima (e non solo foneticamente) con solidarietà, spunta sempre come un fiore nel deserto, immortale, nonostante tutti la calpestino. E succede anche qui, nel pronto soccorso del Policlinico, dove, in alcuni giorni, ci si trova in pochi a dover salvare centinaia di vite. E la vita di un paziente che rischia di perderla, non va salvata soltanto dalla morte, ma anche, per esempio, dal “delirium”. Una condizione che, chi l’ha vista, la definisce «atroce»: anziani che si strappano le flebo dalle vene, giovani che tentano di togliersi il catetere, pazienti che cercano di fuggire. Ed è qui che nasce l’idea, unica sul territorio, di dare la possibilità ai “caregiver” di affiancare i propri parenti. «Preferisci un pronto soccorso più ordinato o che ti dia l’opportunità di affiancarlo?», domanda il direttore a una donna. Lei ha gli occhi imperlati di lacrime. È accanto a un uomo anziano «che non parla italiano», spiega. E per lei non ci sono dubbi, stargli accanto è più importante che poter guardare il paesaggio da una finestra. Stargli accanto sarà forse il gesto estremo, è quello più “umano” che le resta. E allora, non ce ne voglia il dio Asclepio, ma qui, tra queste corsie sovraffollate, sudate, bistrattate, di divino non c’è nulla. Ci sono solo medici, infermieri e infermiere, Oss, di tutte le età, che ogni giorno, oltre la propria professionalità, cercano di portare un pizzico di umanità, nonostante tutto il resto remi contro.

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