È morto in cella, ieri mattina a Bologna, Giuseppe Montani, soprannominato “Panino”, leone ormai senza forze, erede del clan Montani e cugino del boss Andrea “Malagnac”.
Montani era detenuto dal 1995 per associazione mafiosa, traffico di stupefacenti e omicidio. Soffriva di una serie di patologie, sia di tipo respiratorio che nefrologico, che potrebbero aver provocato un infarto come cause possibile della morte. Ma per escludere ogni dubbio, è stata disposta l’autopsia sul corpo. È così che Giuseppe Montani ha messo la parola “fine” ad una detenzione che, secondo i suoi avvocati, avrebbe dovuto terminare al massimo tra un anno.
Per lui, che avrebbe terminato di scontare la pena il 4 giugno 2030, era stata richiesta la liberazione anticipata di sette semestri (da 45 giorni ciascuno): i suoi legali, gli avvocati Nicolò Nono Dachille (a Bari) e Massimo Cacciari (a Bologna, dove è detenuto), nel 2019 hanno presentato regolare richiesta per “lesione dei diritti del condannato e risarcimento danni”, ma il tribunale di sorveglianza del capoluogo emiliano non ha mai dato risposta.
Né risposta è mai arrivata, da oltre un anno, dall’ufficio esecuzioni penali della Procura di Bari a cui il 4 febbraio 2022 erano stati inviati tutti i documenti utili per computare ex art 657 c.p.p. il periodo di fungibilità di un anno e quattro mesi di reclusione, in base alla sentenza della Corte d’Appello di Bari del 10 febbraio 1997, irrevocabile il 2 ottobre 1997, già espiata prima della carcerazione in corso.
In caso di risposta positiva, Montani avrebbe potuto usufruire di permessi premio. Ma non solo: in caso fosse stata accettata la liberazione anticipata, tra poco più di un anno avrebbe potuto avere diritto a una misura alternativa, come la semilibertà o la messa alla prova.
La storia di Giuseppe Montani è costellata di eventi singolari. Da quando, ancora 32enne, decise di collaborare con la giustizia, raccontando all’allora sostituto procuratore antimafia, ora Governatore pugliese, Michele Emiliano, fatti che riguardavano reati da lui stesso commessi negli anni dal 1993 al 1997, quando fu arrestato nell’operazione “Marte”.
Montani, imputato per associazione mafiosa, traffico e spaccio di stupefacenti, detenzione di armi, un tentato omicidio e due omicidi, all’epoca era affiliato ai fratelli Raffaele e Donato Laraspata (capi dell’omonimo clan, ormai ridotto in cenere), suoi “compari di matrimonio”, grazie ai cruenti fatti di sangue commessi. Era stata particolarmente rapida la sua scalata nel mondo mafioso, fino a ricevere un grado molto elevato, il quinto o il sesto nella scala prevista dal rituale.
Era considerato dagli inquirenti uno dei promotori (assieme a suo cugino Andrea “Malagnacc”) del sodalizio mafioso, che per anni aveva tenuto sotto scacco i quartieri San Paolo, San Girolamo e Bari vecchia. Nel 2012 fu assolto in primo grado nel processo per l’omicidio di Vincenzo Di Leo, avvenuto il 31 dicembre 1991 nell’ambito del conflitto fra clan perché la sua partecipazione al delitto non sarebbe stata adeguatamente provata. L’assoluzione, mai impugnata dall’accusa, è poi passata in giudicato.
Ma il suo pentimento non durò a lungo. Da solo, in località protetta, con legami familiari tagliati di netto (sua moglie aveva deciso la separazione), scelse di tornare sui suoi passi. Da allora, è cominciato il suo percorso detentivo costellato di imprevisti.
Sei anni fa l’ennesimo: improvvisamente l’Inps smise di erogare la pensione di invalidità da 300 euro per la mancata comunicazione di documenti mancanti. La lettera di richiesta dell’istituto di previdenza gli era arrivata in cella, ma lui non ne aveva compreso fino in fondo l’importanza e l’aveva ignorata.
Nelle scorse ore tutto si è fermato, esattamente come il suo cuore. E la giustizia che lo aveva dimenticato.