«Un’azienda che in Cina vende 200.000 auto elettriche può facilmente fare dumping (“scaricare” prodotti a basso prezzo, ndr) con altre 200.000 elettriche in un’altra regione. Come costruttori europei stiamo assistendo a una competizione asimmetrica che, in un modo o nell’altro, dobbiamo correggere». Con queste parole Luca De Meo, Ceo di Renault, ha centrato il punto in settimana su quello che è l’attuale stato dell’arte dell’automotive nel mondo. Mentre l’Europa si pone obiettivi ambiziosi sul piano ambientale, nella consapevolezza che l’emergenza climatica non è più un fattore trascurabile, rischia di sottovalutare l’impatto sociale ed economico che avrà il passaggio all’elettrico, in termini di distribuzione delle fette di mercato e, di conseguenza, di posti di lavoro. Che l’impostazione fordista e post rivoluzione industriale rappresenti il passato i paesi occidentali l’hanno compreso da tempo e nessuno si illude di tornare a quella condizione, con il Mediterraneo e l’Atlantico crocevia delle uniche vere rotte commerciali del mondo. Il problema, però, è che il passaggio al trasporto elettrico ridisegnerà completamente gli equilibri di forza nel settore a livello globale e non tutti, forse, ne sono ancora convinti. Non si tratta infatti di chiedere alle case automobilistiche di cambiare un pezzo delle loro autovetture per arrivare pronte all’appuntamento con il 2035 ma di ripartire da zero, costruendo qualcosa di completamente diverso da ciò su cui hanno investito energie e risorse per cinquant’anni. Il tutto con un ritardo rispetto a Tesla, la creatura creata da Elon Musk che sta già travolgendo l’Europa (a dicembre l’ultimo modello della casa, la Model Y, è stata l’auto più venduta nel Vecchio Continente con un incremento del 300% rispetto a un anno prima), che sfiora i dieci anni.
Un capovolgimento negli equilibri dell’automotive che è già realtà se si considera che relativamente ai soli veicoli elettrici, stando ai dati del Cam (Center for Automotive Management), nel 2022 sono state vendute nel mondo 1,3 milioni di Tesla, 820 mila Byd e 700 mila Saic. Gli ultimi due sono marchi cinesi mentre la prima, pur essendo americana, ha a Shanghai uno dei suoi più grandi poli produttivi (gli altri due sono a Fremont, negli Stati Uniti, e a Berlino). Volkswagen, per rendere l’idea, ne ha vendute 500 mila. Un mercato condizionato sostanzialmente da tre fattori su cui questi nuovi protagonisti della scena mondiale dettano legge: il vantaggio tecnologico, avendo iniziato con molto anticipo rispetto alle case occidentali a studiare l’elettrico; la capacità di approvvigionamento di materie prime, essenziali per la realizzazione delle batterie (il 70% della disponibilità mondiale è in mano alla Cina) e la struttura rigidamente “internalizzata” della produzione. Se le conseguenze dei primi due punti sono facilmente intuibili, vale la pena soffermarsi sul terzo perché è soprattutto qui che l’Europa e l’Italia, in particolare, rischiano di pagare un prezzo altissimo. Un’auto elettrica richiede per la sua costruzione un terzo della componentistica di una termica. Ciò di cui necessitano marchi come Tesla, inoltre, li producono in gran parte autonomamente, affidandosi il minimo possibile a ditte esterne. Quella che è ad oggi un’arma vincente di questo modello di business, che rinuncia anche alle concessionarie per ottimizzare ogni centesimo (le auto si comprano solo online), pone un interrogativo enorme sul futuro dell’indotto dell’automotive italiano.
Secondo i dati di Federmeccanica e dei sindacati dei metalmeccanici sono a rischio 73 mila posti entro il 2035. Il lavoro, la “manodopera”, oltre a contrarsi, nella realizzazione di un’auto elettrica si “sposta” anche verso qualifiche professionali diverse. Serve più chi lavora sui software che sui motori. Se si considera, inoltre, che molte auto elettriche, proprio per la semplicità relativa della componentistica, non richiedono tagliandi e cambi olio, lo stesso lavoro delle officine private verrà messo a dura prova. I costi sociali enormi che l’Europa, dominatrice per decenni del mondo dell’auto, dovrà affrontare, spinge paesi come l’Italia a tentare di rallentare l’abbandono di benzina e disel. Non c’è di fondo un perverso autolesionismo, un consegnarsi al cambiamento climatico senza battere ciglio, ma la certezza che la produzione dell’auto in Europa non fungerà più da motore dell’economia. Il luogo simbolo della ridistribuzione della ricchezza tramite il reddito e il giusto compenso, frutto di dure battaglie sindacali dentro e fuori le fabbriche, sta evaporando travolto da un mercato che avrà bisogno di meno lavoratori, concentrati in pochi agglomerati industriali (le cosiddette gigafactory) e in cui i colossi cinesi e americani detteranno legge.
Il colpo di grazia arriverà dal prezzo dei veicoli. Il margine di guadagno che Tesla ha sulla vendita di un’auto è quasi il doppio rispetto ai competitor, stando a una recente ricerca realizzata da Reuters. Non sorprende, dunque, che a gennaio il prezzo di alcuni modelli sia stato abbassato del 20% con l’obiettivo di battere nuovi record proprio nel Vecchio Continente. Un campo di battaglia su cui le case europee sono lontane dal poter competere.
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