Nel suo discorso di fine anno, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sottolineato la forte preoccupazione legata alla disoccupazione e alla precarietà, invitando così le istituzioni a porre al centro dell’attenzione la persona e i suoi bisogni concreti. Il 28 settembre 2022, la Commissione europea ha inviato agli Stati una Raccomandazione sul sostegno delle misure di reddito minimo per la riduzione della povertà e dell’esclusione sociale. La Manovra di bilancio, approvata il 29 dicembre 2022, include l’abolizione definitiva del Reddito di cittadinanza, in ragione del fallimento dello stesso come misura di politica attiva del lavoro e della sua trasformazione in un sussidio avente natura meramente assistenziale. In tale sede, si ritiene opportuno soffermarsi sugli effetti scaturenti dall’abolizione del sussidio, senza entrare nel merito delle decisioni adottate dal nuovo Esecutivo. Il rischio è quello di un “collasso” sociale che sembra travolgere non tanto la sfera giovanile quanto invece la fascia di età più avanzata. Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni – in una sua recente intervista – ha giustificato tale operazione affermando che il rimedio al dilagante fenomeno della disoccupazione non deve essere intravisto nella misura promossa dal Movimento 5 Stelle, bensì nella formazione e nell’accompagnamento al lavoro. A tale proposito, appare inevitabile chiedersi come si possa pensare di riformare un soggetto di età compresa tra i 50 e i 59 anni che risulti sprovvisto di un sufficiente livello di istruzione. Sempre in tale frangente, la medesima ha posto l’accento sulla necessità di sfruttare le risorse del Fondo sociale europeo per riqualificare gli ex percettori del Reddito. In realtà, il Governo potrebbe già obbligare tale categoria alla formazione per mezzo del Programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori (Gol), l’unico meccanismo attualmente in campo finanziato dal Pnrr. Un altro profilo critico – a parere di chi scrive – è rappresentato dalla definizione di “beneficiario occupabile” ripresa dal Governo, la quale comprende gli individui tra i 18 e i 59 anni privi di prole minore e non portatori di handicap. Con tale nuova definizione, l’Esecutivo sembra omettere la presenza di nuclei con figli maggiorenni ancora frequentanti gli istituti scolastici. Questi, dunque, presto non saranno più in grado di adempiere il loro dovere di mantenere, educare ed istruire i figli (art.30 Cost.). Si è consapevoli dell’impossibilità di erogare il predetto sussidio per lungo termine a favore di un’ampia cerchia di persone (circa 2,36 milioni). Tuttavia, il Governo avrebbe potuto optare per una valutazione mirata al caso concreto, in modo tale da considerare le difficoltà dei singoli nuclei familiari. Con la scelta più estrema, invece, si generano profonde disuguaglianze, anche territoriali, poiché la maggior parte dei percettori del Reddito risiede nel Mezzogiorno. In linea generale, il Governo italiano non sembra avere adottato come parametro di riferimento la Costituzione – la “bussola” evocata dal Capo dello Stato – che all’art. 3 prevede la rimozione da parte della Repubblica degli ostacoli di ordine economico e sociale che ledono i diritti delle persone e la loro piena realizzazione. Se è vero che alla Repubblica non spetta il compito di creare lavoro, è altrettanto vero che alla alla stessa incombe promuovere le condizioni che consentono uno sviluppo economico e sociale capace di rendere effettivo il diritto al lavoro per tutti (Corte Cost., n. 78/1958). La Costituzione ha sancito il “matrimonio” tra dignità e lavoro: non ci può essere lavoro senza dignità, ma neanche dignità senza lavoro (G.M. Flick, 2016).
Dott.ssa Luana Leo
Dottoranda di ricerca in Diritto costituzionale
Università Lum Giuseppe Degennaro