«L’ospedale San Giuseppe di Copertino è ormai in fase terminale», denuncia Giuseppe Pietro Mancarella, segretario provinciale dei Cobas. È un durissimo atto d’accusa quello lanciato dal sindacato nei confronti della direzione medica. Mancarella segnala la presenza di visitatori e operai di ditte esterne privi di mascherina a dispetto delle regole.
«Dopo l’inopinata chiusura dell’ambulatorio di Terapia del dolore – continua il sindacalista – senza un vero motivo tecnico, se non per favorire i privati, oltre alle solite gelosie interne, con l’ambulatorio di valutazione Alzheimer a rischio spostamento, cronicamente con pochi posti letto, in questi giorni è imploso il pronto soccorso». Un reparto che, considerato il bacino di utenti servito, rimane l’unico con i suoi ventimila e passa accessi a proteggere ancora il Fazzi dalla debacle totale. «Per questo dovrebbe essere tenuto in grande considerazione ma invece è da sempre maltrattato e sotto organico con inevitabili conseguenze sull’assistenza dei pazienti, lasciati per ore sulle barelle in corridoi o ammassati nelle salette da visita senza un minimo di privacy. La soluzione scovata dalla direzione di presidio per ovviare alla carenza di professionisti che giustamente evitano di lavorare nei pronto soccorso, è spostare personale dagli altri reparti. Una soluzione mirabolante che, però, come conseguenza, avrà l’effetto di farli implodere».
Il sindacato descrive una situazione veramente al collasso e mette sotto accusa le decisioni adottate dai vertici aziendali. Soprattutto punta il dito contro la recente delibera sulla gestione a domicilio del dolore degli ammalati terminali oncologici e oncoematologici.
«L’Asl di Lecce sta cercando associazioni di volontariato a cui affidare le cure domiciliari dei pazienti terminali – accusa Mancarella – compensandole con pochissimi soldi. Eppure si comprende bene che sono accessi domiciliari di un certo rilievo, viste le patologie da trattare. Da notare che, pur dovendo trattare un dolore in pazienti terminali, tra le figure previste c’è un infermiere, un professionista della riabilitazione, un dietista, uno psicologo, un operatore sanitario e un medico. Non un terapista del dolore». E poi il durissimo affondo finale: «Si è voluto distruggere la rete di Terapia del dolore, chiudendo l’ambulatorio del San Giuseppe e fare una convenzione con studi esterni privati per permettere a un medico del Fazzi di effettuare la libera professione all’esterno, senza perdere l’indennità di esclusività».