Si può essere d’accordo o meno sull’idea che in Italia occorre introdurre un salario minimo deciso per legge. E io non lo sono, perché ritengo che occorra preservare gli istituti della contrattazione collettiva come mezzo più efficace per salvaguardare i diritti di chi lavora. Ma non si può negare che in Italia la questione salariale sia ormai deflagrata. Vediamo perché.
In Europa non c’è un Paese membro che abbia il libello di sviluppo industriale come quello italiano: veniamo dopo la Germania, ma siamo pur sempre la seconda potenza manifatturiera del continente. E questo si sa. Ma al contempo non c’è Paese che abbia salari più bassi. E su questo la consapevolezza è a lungo mancata. Per fortuna, da qualche tempo, il sistema dei media, anche sotto l’impatto dell’inflazione, ha scoperto invece che in Italia esistono la questione salariale e la povertà. Ma si fatica a trarre da questi assunti le dovute conseguenze. Si parla di inflazione, dunque, e si rimarca che incide sui prezzi delle materie da cui si ricava energia.
Meno attenti siamo al fatto che essa – solo nell’anno in corso – ha provocato un calo dei salari in termini reali del 6%. Anche qui, un exploit non proprio positivo per il nostro Paese, perché si tratta del doppio rispetto alla media dell’Unione europea. In realtà i salari sono più bassi non dalla guerra in Ucraina e per i suoi effetti sempre in termini reali, vale a dire valutando la quantità di beni che il lavoratore può acquistare con la sua paga, si osserva una riduzione del 12% rispetto al 2008, dato che ci colloca all’ultimo posto tra i Paesi Ocse, quelli più sviluppati. Ancora: siamo l’unico tra i membri della Ue che dal 1990 a oggi registri un dato decrescente.
Esiste quindi una realtà, quelle italiana, in cui c’è poco lavoro, specie al Sud. Territorio dove attecchisce tanto il “lavoro povero”, fenomeno che si sta allargando con effetti sociali devastanti. In barba al dettato costituzionale secondo cui (arti colo 36) «il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera dignitosa». Io credo che su questa deriva inammissibile abbia giocato un ruolo il fatto che le rappresentanze politiche che si richiamano alle forze sociali del capitale abbiano preso il sopravvento, da noi, a cominciare dalla fine degli anni Settanta. Parallelamente si è prodotto uno squilibrio a proposito della tutela del fattore lavoro, che tanto peso ebbe invece negli anni Settanta del secolo scorso. Una questione che ha sollevato con lucida efficacia Michele Achilli, il quale attribuisce, per esempio, la irrefrenabile crisi del Partito democratico alla sua perdita di radicamento nel mondo del lavoro. E non solo. Più in generale, nel panorama italiano, manca a oggi una forza politica che ponga come prioritario il problema del lavoro e delle condizioni dei lavoratori.
Negli ultimi trent’anni l’Italia è stata governata da coalizioni di destra e uliviste prima, poi da coalizioni che hanno trovato il baricentro nel Movimento Cinque Stelle. Possiamo con schiettezza affermare che ci sia stata una coalizione, fra le tante che si sono susseguite, che abbia prestato seria attenzione al mondo del lavoro, dei diritti del lavoro, delle loro condizioni di vita? Francamente proprio no. Continuiamo invece, con letture che se non ingannevoli sono simulatorie, a dare peso ai dati confortanti dell’export nazionale, sottacendo che spesso questi exploit sono dovuti, in parte non irrilevante, proprio ai bassi costi del lavoro italiano. Fattore che a sua volta penalizza i consumi ed è causa di debolezza strutturale della nostra economia.
Raffaele Tovino è dg di Anap
Bentornato,
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