Non c’è ancora accordo tra socio privato, ArcelorMittal e quello pubblico, Invitalia, sul futuro dell’ex Ilva, lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa, quello di Taranto.
Ieri nuovo rinvio, il secondo in pochi giorni, dell’assemblea dei soci azionisti di Acciaierie d’Italia. Il sei dicembre si tornerà a cercare un’intesa tra le parti. La fabbrica è in stallo e il processo di progressiva ristatalizzazione del gruppo stenta a partire.
Dopo che il management, circa venti giorni fa, ha messo alla porta 145 aziende dell’indotto e con loro più di duemila lavoratori, ora a rischio cassa integrazione o peggio licenziamento, i sindacati hanno chiesto allo Stato di prendere in mano la guida dello stabilimento, o attraverso un riequilibrio della governance, cioè un aumento del capitale pubblico per passare in maggioranza, o con una manovra più drastica: escludere del tutto il socio privato, i francoindiani di Mittal, ora soci di maggioranza nella società che ha preso in fitto gli impianti e statalizzare, almeno per un certo periodo, la fabbrica. Quel che è certo è che l’azienda è alle prese con un gravissimo problema di liquidità.
Il governo, col ministro delle Imprese Adolfo Urso, ha indicato la necessità di un riequilibrio della governance in Acciaierie d’Italia, facendo riferimento addirittura a un «treno che sta per deragliare». L’esecutivo lega anche al cambio di governance la concessione di un miliardo di euro inserito per l’ex Ilva nel dl Aiuti bis.
Fonti sindacali confermano l’atmosfera tutt’altro che serena tra le aziende dell’indotto, alcune delle quali hanno già esaurito la cassa integrazione e se escluse definitivamente dagli affari col siderurgico saranno presto costrette a chiudere. Altre stanno facendo ricorso agli ammortizzatori sociali, così come da lungo tempo fa ormai anche il siderurgico. La crisi di liquidità è confermata anche dai pagamenti nei confronti delle imprese dell’appalto, che hanno maturato già oltre cento milioni di euro di crediti. I lavoratori ora temono ripercussioni sulle buste paga di novembre e dicembre e sulla tredicesime.
Come se non bastasse, secondo quanto riferito dalla Fim Cisl, l’azienda ha fermato anche la produzione lamiere per una decina di giorni, probabilmente per mancanza di commesse. L’altro pomeriggio, intanto, il governo ha risposto alle interrogazioni del senatore Antonio Misiani e del deputato Ubaldo Pagano sulla improvvisa decisione di Acciaierie d’Italia di interrompere i lavori dell’indotto. Dal sottosegretario di Stato per le Imprese e il Made in Italy, Fausta Bergamotto, sono giunte rassicurazioni sull’interesse massimo da parte del governo sulla questione. «Siamo lieti di apprendere – ha detto Misiani – che il governo conferma la natura assolutamente prioritaria dell’importante capitolo rappresentato dall’acciaieria». Sul difficile dossier del siderurgico di Taranto è intervenuto anche il presidente di Federacciai Antonio Gozzi. «Credo che nel momento in cui lo Stato metterà i soldi che servono per non far fallire Acciaierie d’Italia, di fatto prenderà il controllo», ha detto Gozzi, confermando la situazione di impasse «perché c’è un socio di maggioranza che per ora nega supporto finanziario all’azienda e lo Stato che non se la sente di capitalizzare non essendo nella governance dell’azienda».
Per Gozzi «il problema è che per 10 anni non sono stati fatti investimenti sulle macchine. Sulla sicurezza dei lavoratori e la qualità dei prodotti ci sarà un grandissimo lavoro da fare per riportare l’Ilva ai livelli che merita, visto che resta uno dei più grandi impianti d’Europa». Solo il rifacimento dell’Altoforno 5, costa circa 400 milioni di euro. Il sei dicembre, oltre all’assemblea dei soci, tornerà a riunirsi l’osservatorio ambientale sul siderurgico. Durante la riunione il ministero delle Salute potrebbe aggiornare le valutazioni sanitarie dello scenario emissivo.