Il comunicato diramato ieri dalla Procura della Repubblica di Bari ha dato atto dell’esecuzione dell’ordinanza applicativa degli arresti domiciliari nei confronti di tre appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria, in servizio presso la Casa Circondariale Francesco Rucci, gravemente indiziati del delitto di tortura in concorso. Gli agenti avrebbero infatti sferrato calci e pugni a un detenuto.
L’uomo, con problemi psichici, sarebbe stato colpito per quattro – lunghissimi – minuti, sotto gli occhi di altri colleghi che avrebbero assistito alla scena senza intervenire e, pertanto, oltre ad essere indagati per concorso nel reato, sono stati anche sospesi per un anno dal servizio. Risultano inoltre sottoposti a indagini tre infermieri e il medico di guardia dell’istituto, accusati di non aver refertato sul diario clinico le ferite riportate dal detenuto e di aver omesso di denunciarne il pestaggio.
Le contestazioni elevate dalla Procura hanno carattere provvisorio e ogni valutazione in ordine alle presunte responsabilità degli indagati dovrà essere sottoposta al vaglio del contraddittorio, nel rigoroso rispetto del principio di non colpevolezza.
Dalla vicenda, tuttavia, emergono due importanti aspetti: il primo è che l’inchiesta ha preso le mosse da una denuncia presentata, congiuntamente, dalla direzione della Casa Circondariale e dal Comando della polizia penitenziaria. Un dato positivo, che testimonia la presa di distanza delle Istituzioni rispetto alla condotta di singoli individui e il pieno spirito di collaborazione nei confronti della magistratura.
Merito, probabilmente, anche dell’entrata in vigore della legge sulla tortura che – come ha ricordato Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone – ha consentito in più occasioni, dal 2017 a oggi, di “rompere il muro di omertà che spesso si è creato in passato, garantendo ampio riconoscimento a chi porta avanti il proprio lavoro nel rispetto dei diritti e della dignità degli individui”.
La seconda circostanza di rilievo è che la vittima del presunto pestaggio sia un uomo con problemi psichici, il quale avrebbe tentato di appiccare il fuoco a un materasso: il dato conduce, ancora una volta, a riflettere sul tema della salute mentale in carcere.
E infatti, sebbene la gravità della situazione clinica del detenuto non sia nota, sorge spontaneo chiedersi perché gli individui con patologie psichiche, spesso importanti, si trovino reclusi in istituti detentivi – il più delle volte drammaticamente sovraffollati, con tutte le difficoltà del caso in termini di assistenza – anziché in luoghi prioritariamente deputati alla cura.
Questa situazione, tristemente diffusa su tutto il territorio nazionale, richiama l’attenzione su due priorità in tema di tutela della salute mentale degli autori di reato: migliorare la funzionalità dei circuiti penali già esistenti per la presa in carico dei portatori di patologie psichiatriche gravi e individuare nuovi spazi di accoglienza. Non si tratta, dunque, solo di ampliare la capienza delle Rems – sebbene assolutamente insufficiente rispetto ai concreti fabbisogni – bensì di considerare la concreta praticabilità di nuove soluzioni, nella consapevolezza che il carcere non è per vocazione, né può essere, per le concrete condizioni in cui versa, un luogo di cura.
L’auspicio, dunque, è che sia fatta chiarezza sulle responsabilità dei singoli in relazione al grave episodio denunciato e che l’attenzione sulle condizioni detentive, intrise di estremo disagio e silente marginalità, resti alta anche quando le carceri non balzano agli onori delle cronache.
Noemi Cionfoli è avvocata, associazione Antigone
Bentornato,
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