«Lavoreremo per restituire ai cittadini la garanzia di una Nazione sicura, rimettendo al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri. Dall’inizio dell’anno sono stati 71 i suicidi in carcere. È indegno». Parole di Giorgia Meloni, dal discorso per la fiducia alla Camera.
Nel frattempo, un altro detenuto si è tolto la vita e tra i primissimi atti del governo si registra il rinvio a fine anno della “riforma Cartabia”, che si prefigge(va?) anche l’obiettivo di ridurre la pressione sul sistema carcerario italiano ampliando, e non poco, le alternative alla pena detentiva e alla custodia cautelare.
L’iniziativa dell’esecutivo asseconda le “richieste” del Presidente dell’associazione nazionale dei magistrati e di 26 procuratori generali, ma all’opposto il direttivo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, l’Unione delle camere penali e il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale hanno espresso preoccupazione per le persistenti condizioni di sovraffollamento nelle quali versano molti istituti penitenziari e il rischio che la “paralisi” della riforma aggravi ulteriormente questa crisi. Dietro questa contrapposizione fluttuano due spettri. Il primo è il cosiddetto “segnale di discontinuità”.
Nello stesso discorso, la Presidente Meloni ha molto insistito sul tema della sicurezza, segnalandolo come “un dato distintivo” dell’esecutivo, che prenderà le distanze dalla postura di uno “stato che a volte ha dato l’impressione di essere più solidale con chi minava la nostra sicurezza” di quanto lo fosse con le forze dell’ordine. Difficile non cogliere in questa affermazione le potenziali premesse di una svolta ispirata dal carcero-centrismo, che si accanisce contro la microcriminalità brandendo furiosamente l’arma della custodia cautelare. Il secondo, è l’eterno tema delle riforme con poche se non nessuna risorsa, non strutturali, che lambiscono l’epicentro della crisi della giustizia penale italiana, alleviando transitoriamente qualche aspetto più acuto, ma senza mai risolvere alla radice i problemi radicali: la mancanza di uomini, la mancanza l’insufficienza dei mezzi e delle strutture, la dis-organizzazione, come dimostrano, in modo esemplare, l’ufficio del processo, per un verso, e, per l’altro, la stasi se non la sclerosi dell’edilizia giudiziaria di Bari, dopo che a giugno del 2018 (oltre 4 anni fa) venne accertata la inagibilità della sede di via Nazariantz.
Giuseppe Losappio è ordinario di Diritto penale all’università di Bari
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