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Mari e Monty: tra chiese e sepolcri la fede di Bari vecchia

Oggi, dopo il tanto girare e girovagare dei numeri precedenti della nostra rubrica, voglio proporvi una gitarella diversa. Non fuori porta, alla scoperta delle bellezze di chissà qualche città, ma invece all’interno delle nostre mura. E precisamente all’interno di noi e delle nostre stesse convinzioni. Del resto, dove sta scritto che i viaggi sono solo…

Oggi, dopo il tanto girare e girovagare dei numeri precedenti della nostra rubrica, voglio proporvi una gitarella diversa. Non fuori porta, alla scoperta delle bellezze di chissà qualche città, ma invece all’interno delle nostre mura. E precisamente all’interno di noi e delle nostre stesse convinzioni.

Del resto, dove sta scritto che i viaggi sono solo quelli fisici? Magari, invece, sono altrettanto belli quelli mentali. E se ve lo dice uno, il cui ultimo libro si chiama “I rifugi della mente”, potete davvero credergli sulla parola. Spesso, infatti, è proprio il fantasticare la bellezza stessa di un viaggio. Così come, tanto per dire, il Natale poco sarebbe senza la sua vigilia, con il suo carico di aspettative e di letizia preparatoria. In altre parole, i viaggi interiori possono essere gratificanti come e a volte anche di più di quelli esteriori.
E, proprio nella settimana in cui ricorrono i cosiddetti “sepolcri”, quale miglior viaggio interiore ci potrebbe essere? Nel rispetto delle diverse credenze religiose, si intende, e di chi quindi in questa festività non si rispecchi. Però il Giovedì Santo, religione o non religione, è davvero esso stesso un viaggio. Un viaggio dentro le proprie coscienze; un viaggio dentro le radici più profonde di una spiritualità che qualcuno vive di più o di meno di qualcun altro; un viaggio dentro ciò che, in realtà, dovrebbe simboleggiare più delle uova e dei pranzi omerici della domenica il forte messaggio spirituale che è insito dentro questa “festa”.
Fa specie pensare che, in piena pandemia, si sia addirittura dovuto rinunciare a quella che sembrava l’intramontabile abitudine di “fare i sepolcri”, come si dice abitualmente dalle nostre parti. Per la solita paura degli assembramenti, che a dire il vero, però, non era infondata, dal momento che quella sera a Bari Vecchia c’è abitualmente il delirio di gente. Tutti ferventi religiosi o improvvisati tali per una sera, che a quella tradizione non rinunciano proprio. Una tradizione che forse non è da tutti approfondita come meriterebbe, ma che di fatto riversa tanti cittadini nelle chiese nostrane, affollate quella sera più dello stadio di San Siro durante un derby stracittadino tra Inter e Milan. Chiese che bisogna visitare in numero dispari, altrimenti porta male. E quindi uno, tre, cinque, sette, nove, undici. Manco stessimo facendo le tabelline. Con il minimo comune denominatore in questo caso di tre, che si conferma ancora una volta il numero perfetto. Si entra, si dice una preghiera al volo, e poi via di corsa all’altra chiesa vicina, che se no questa scappa o viene presa d’assalto. Il Padre Nostro, magari, recitato nella basilica di San Nicola; l’Ave Maria nella cattedrale; l’atto di dolore davanti a Maria delle sgagliozze.
Perché le sgagliozze o il cibo di strada (scusate, ma “street food” proprio non mi esce) non devono mai mancare in certe occasioni. Insieme magari a una bella Peroni “sudata” (altro termine nostrano per indicare la temperatura bella ghiacciata a cui la birra va bevuta). Sì, avete capito bene. I sepolcri sono anche questo: folclore. Che sembra lontano dalla sana tradizione spirituale di riferimento, ma che da un certo punto di vista contribuisce ad alimentarla e a tenerla ben viva nei ricordi e nei cuori della gente. Un’abitudine – quella di girare di sera per le chiese il Giovedì Santo, facendo auguri a destra e a manca per l’imminente Pasqua – che si stava perdendo e che per fortuna da quest’anno abbiamo ricominciato a fare nostra.

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