Lo sguardo pietrificante della medusa ai nostri tempi, certamente più prosaici, si raccoglie nel fascino dei sondaggi ai quali – come accadeva con lo sguardo della Gorgone – i politici non riescono a sottrarsi. Così, sulla spinta dei sondaggisti più quotati (ormai veri e propri oracoli della contemporaneità), gli schieramenti politici si sono presentati all’elettorato con una sola linea di confine: pro o contro l’agenda Draghi. L’esito delle urne è inappellabile: quella direzione non interessa buona parte degli italiani e “Super Mario” ha perso il suo allure appannato da quel non essere stato il valore aggiunto per chi ha deciso di remare nella sua direzione.
Per Giorgia Meloni, super star di questa tornata elettorale, il gioco è stato facile: quasi cinque anni all’opposizione con il capolavoro di sottrarsi al governo delle larghe intese che ha messo insieme il diavolo e l’acqua santa. Uno stare “alla larga” che certamente ha pagato nel segreto dell’urna. Di contro c’è la batosta, sonora, che gli elettori hanno assestato agli eredi del Pci, quel Pd ormai slavata memoria di una sinistra che non riconosce più la sua casa e, soprattutto, fatica a edificarne una nuova.
Eppure anche il vincere “contro Draghi”, come nel caso della Meloni, non è un salvacondotto verso un governo stabile e robusto nei suoi intendimenti. I leader che la affiancano, Salvini innanzitutto, sono ridimensionati. Non gli sono bastate neppure le incursioni social (la diretta di chiusura della campagna elettorale sulle chat e sulle piattaforme più in voga gli ha “regalato” tre milioni di contatti) per risalire la china che poi l’ha visto scivolare sino al 9 per cento.
E non solo. Salvini all’angolo? Non è politico da starci volentieri, ammesso ci sia qualcuno che ami questa postazione. La competizione interna tra Meloni e Salvini rischia di logorare come un tarlo la base di questa coalizione che dovrà governare l’Italia in una crisi economica e politica che ormai dura da troppo tempo. E poi c’è il Cavaliere che torna in Senato e viene dato papabile per la presidenza, dopo anni in cui la questione morale lo ha tenuto ai margini. Certo Berlusconi, forse per la sua mossa anti-Draghi dell’ultima ora, ha fatto il miracolo di essere in gioco al pari della Lega che guarda con nostalgia ai tempi in cui Salvini era il capitano. La partita sarà tutta da osservare.
E quella che alla fine si è rivelata una grande nemesi, la scelta di sposare l’agenda Draghi, ha travolto il segretario del Pd, Enrico Letta, ma fino a un certo punto perché il passaggio di testimone è stato rinviato al prossimo congresso e quindi ci sarà tutto il tempo per far elaborare la sconfitta e lasciare tutti i giochi aperti. Un Letta che pasticcia con Calenda e M5s come un uomo diviso tra due donne e che ha puntato su Draghi come avesse un potere taumaturgico.
La lezione, a quanto pare, nessuno l’ha imparata e si continua una partita con schemi usurati sia pur imbellettati dal profumo di modernità che viene dall’utilizzo di una comunicazione che viaggia sugli umori della rete e dei sondaggi. Nessuna visione di largo respiro e a sinistra sono ancora orfani di Enrico Berlinguer.
Bentornato,
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