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Università di Bari, Bertolino: «Il lavoro appassionato paga sempre»

Secondo una visione orientale della vita, ciascuna e ciascuno di noi nasce con una missione, che più di tutto ci rende persone uniche e irripetibili, e dalla cui realizzazione dipende la nostra capacità di esprimerci appieno ed essere felici, portando benefici alla nostra vita e al mondo attorno a noi. Nel caso di Alessandro Bertolino…

Secondo una visione orientale della vita, ciascuna e ciascuno di noi nasce con una missione, che più di tutto ci rende persone uniche e irripetibili, e dalla cui realizzazione dipende la nostra capacità di esprimerci appieno ed essere felici, portando benefici alla nostra vita e al mondo attorno a noi. Nel caso di Alessandro Bertolino questo è accaduto con la psichiatria: classe ’67, napoletano di nascita, barese di adozione, è cresciuto ispirato dal modo in cui suo padre esercitava la professione, tanto che afferma: «la psichiatria corre nel nostro sangue». La sua è una passione confermata all’Università, a Bari, ed esplosa durante la specializzazione negli Stati Uniti. Oggi Alessandro Bertolino è professore ordinario di Psichiatria all’Università Aldo Moro di Bari, primario della Clinica Psichiatrica del Policlinico e direttore del Dipartimento Universitario di Scienze Mediche di Base, Neuroscienze e Organi di senso, dove conduce il gruppo di ricerca sui disturbi psichiatrici maggiori, come quello bipolare e la schizofrenia, divenuto importante punto di riferimento internazionale.

Alessandro Bertolino, cos’è accaduto durante la specializzazione?
«Per sei anni sono stato al National Institute of Mental Health (NIMH), vicino Washington, con piacere e onore al fianco di Daniel Wenderger, uno dei mostri sacri della schizofrenia a livello mondiale, scoprendo la bellezza di fare ricerca». E, aggiunge con un sorriso: «Se per me già era amore, lì è diventato amore folle», lasciando percepire, ancora oggi, l’entusiasmo che illumina chi ha la conferma di aver trovato la propria strada, e si concede un pizzico di “umorismo clinico”, ammorbidendo il rigore che il suo ruolo gli impone, e che riprende quando racconta dell’ultima ricerca, che a giorni sarà pubblicata sulla rivista “Nature”. «Da vent’anni gli studi che portiamo avanti sono volti a cercare di comprendere come il rischio genetico (cioè le variazioni che ognuno di noi ha nel proprio DNA) predispongono a sviluppare il disturbo clinico della schizofrenia; cioè, nel momento in cui si verificano variazioni genetiche, indaghiamo su come queste modificano il nostro assetto biologico e producono una sintomatologia. Detto così è semplice, studiarlo è molto più difficile; ad aumentare il rischio concorrono anche fattori ambientali».
Per esempio?
«Subire bullismo, uso di droghe da abuso, complicanze ostetriche, vivere in città, sono tanti. Questo non vuol dire che siano cause dirette dell’insorgere dei disturbi psichiatrici ma che possono diventare fattori di rischio se si è geneticamente predisposti. Studiamo il funzionamento del cervello delle persone mentre svolgono determinati compiti cognitivi o emotivi, con tecniche di imaging avanzate; dopo misuriamo le variazioni genetiche subentrate e cerchiamo di capire come tali variazioni predispongano a un alterato funzionamento del cervello. Uno dei temi importanti che affrontiamo è la memoria; l’altro è la capacità di elaborare emozioni».
Per chi ha la fortuna di conoscere la patologia solo attraverso serie TV come Perception o Maniac, la schizofrenia interferisce con le capacità dell’individuo di riconoscere la realtà, percepire e gestire le emozioni, apprendere e ricordare esperienze e informazioni. In due parole: tanta sofferenza.
Professore, come fa ogni giorno ad affrontarla?
«Quello dello psichiatra è un lavoro che richiede particolare qualità emotiva. Chi sceglie di occuparsi della sofferenza mentale di altre persone e di aiutarle, deve avere capacità empatica, di accoglienza, per poter sostenere questo tipo di carico emotivo».
Riesce ugualmente a essere felice?
«Sono sicuramente una persona felice» dice riaprendosi nel suo sorriso da specializzando.
Cos’è la felicità per lei?
Sorride ancora: «Lei mi fa una domanda molto complicata. Ma la felicità per me è avere la possibilità di fare un lavoro per il quale si è appassionati e avere una bella famiglia. Molto semplicemente». Una semplicità che fa bene al cuore scoprire nell’uomo artefice di un’eccellenza pugliese assolutamente fuori dal comune; che a Bari ha scelto di tornare per mettere le sue competenze a disposizione del territorio e che, oltre a scegliere ogni giorno di restare, contribuisce ad accrescere la reputazione della nostra città e della Puglia che, da tanto, non è più solo natura, storia ed enogastronomia. Un luminare della psichiatria moderna che, in chiusura, afferma: «Sacrificio, decisione e passione portano risultati quando vengono applicati con principio. Il lavoro appassionato paga sempre secondo me. Anche in Puglia».

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