In questa campagna elettorale sembra esserci poco spazio per il lavoro. C’è chi promette il taglio del cuneo fiscale e chi, invece, sostiene la necessità del salario minimo. In generale, i partiti sciorinano ricette per consentire ai giovani di entrare nel mercato occupazionale e, a chi un lavoro già ce l’ha, di portare a casa uno stipendio dignitoso. Giustissimo, ci mancherebbe. Ma se nel dibattito politico c’è poco spazio per le strategie anti-disoccupazione, ce n’è ancora meno per un tema cruciale come la sicurezza del lavoro. Insomma, si pensa a come far sì che un dipendente o un collaboratore porti a casa lo stipendio, ma nessuno si preoccupa di fare in modo che quello stesso dipendente o collaboratore, insieme con lo stipendio, porti a casa anche la pelle. Già, perché le statistiche dimostrano come l’ambiente di lavoro faccia più vittime anche della sanguinosissima guerra tra Russia e Ucraina.Nel corso degli anni ho avuto modo di mettere a fuoco le cause della sostanziale insicurezza del lavoro nel nostro Paese, in particolare al Sud. Cito le più evidenti: pochi controlli da parte degli enti preposti, complice il basso numero di ispettori a fronte della miriade di imprese da sottoporre a verifica; una formazione inadeguata, spesso affidata a docenti che non conoscono le realtà produttive e i rischi che concretamente possono presentarsi in un cantiere o in una fabbrica; sistemi punitivi e penalizzanti che non si accompagnano a meccanismi premianti per le imprese attente a investire in sicurezza e ad allinearsi alle previsioni del decreto legislativo 81/2008. E quest’ultimo testo, riferimento principale nella materia, risulta dispersivo fino a rivelarsi poco efficace: che senso ha parlare di norme e codicilli a lavoratori dal modesto background culturale?
Perché non prevedere simulazioni di incidenti che aiutino a “toccare con mano” le drammatiche conseguenze della scarsa sicurezza del lavoro? Perché non rivisitare programmi e monte orario della formazione in modo tale da rendere quest’ultima più proficua? E allora sarebbe il caso che i partiti cominciassero a discutere di certe questioni. Lancio qualche proposta, innanzitutto sui controlli: lo scarso numero di ispettori in servizio fa sì che un’azienda venga sottoposte a verifiche una volta ogni dieci anni e che certi settori come edilizia e agricoltura, che oggettivamente presentano particolari profili di pericolosità, vengano passati al setaccio molto più di altri, in cui l’incolumità di dipendenti e lavoratori pure è messa costantemente a rischio. Qui sarebbe il caso di affiancare agli ispettori soggetti privati e organismi paritetici, facendo sì che le parti sociali collaborino all’attività di controllo: una proposta che Enbiform ha avanzato in tempi non sospetti – e, purtroppo, invano – al ministro Roberto Speranza. Poi va rivoluzionata la formazione, magari riducendo le ore di alcuni corsi a favore di un’interattività e di un maggior coinvolgimento motivazionale e adottando un sistema motivante. Indispensabili i meccanismi premianti: oggi l’unico è l’OT23, ovvero la riduzione del premio Inail per l’azienda che introduca misure capaci di abbassare il rischio di infortuni, ma per il resto un’impresa in linea con il decreto 81/08 è paradossalmente più penalizzata rispetto a una che non lo sia. Di qui la necessità di sistemi premianti che inducano gli imprenditori a investire realmente in una cultura sulla sicurezza che va diffusa a tutti i livelli. Di tutto ciò i partiti dovrebbero cominciare a discutere seriamente e in modo propositivo: la sicurezza del lavoro non può essere sempre la cenerentola del dibattito pubblico, anche in campagna elettorale.
Raffaele Tovino è dg di Anap
Bentornato,
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