Un’impresa con le sue regole, gli investimenti, i ricavi e le suddivisioni fra “soci”. Ma anche le intestazioni fittizie, gli “stipendi” ai prestanome in cerca di “lavoro”.
Dal narcotraffico all’acquisizione di attività commerciali, l’impero di Eugenio Palermiti “il nonno”, buona parte del quale (per un milione di euro) è stato sequestrato lunedì dalla polizia, è un pezzo di storia della Camorra barese. Lo hanno ricostruito gli investigatori della Squadra Mobile della Questura di Bari, coordinati dal sostituto procuratore antimafia Fabio Buquicchio, con l’aiuto di numerosi collaboratori di giustizia. Uno, in particolare, Domenico Milella, che da due anni sta scoperchiando il pentolone nel quale nell’ultimo Ventennio si sono consumati accordi, spartizioni, affari, omicidi e “picchiate”.
Le attività economiche
È sempre Milella, uomo di fiducia di Eugenio Palermiti, allo stesso livello di innalzamento mafioso dell’erede Gianni Palermiti, a raccontare agli inquirenti le più recenti dinamiche di arricchimento, con l’acquisizione di beni per interposta persona. Spiega al pm Buquicchio che i Palermiti non hanno alcun bene intestato e approfittano della necessità di terzi di lavorare per intestare loro attività e beni, così da sfuggire ai controlli delle autorità.
«C’hanno sempre il prestanome – dice Milella – Vicino a loro non mettono niente. Dove può comprare l’immobile, compra, sennò compra l’attività, dipende cosa ha di fronte. Poi sa lui chi deve mettere, a chi deve intestare, parla prima, è normale. Dice: “C’è questa cosa, tu vuoi lavorare?”. Che è di mestiere, “Te la metto vicino a te?”. E quello dice: “Sì”, che sta senza lavoro. Per esempio l’ha fatto al mercato coperto, che è la figlia di Nicola, mò macelleria e salumeria gliele ha messe intestate a lei».
L’elenco delle attività gestite da insospettabili è però molto più lungo. C’è «quello delle lampade», ad esempio, «il parrucchiere, l’estetista, il bar». Una sorta di Monopoli del negozio di vicinato, acquisito nel tempo da Palermiti. «Ti dà lo stipendio – prosegue il pentito – dice a te: “Tu vuoi lavorare là? Ti do’ 2.000 euro, 1.500 euro al mese, 1.000 euro al mese, vuoi lavorare? Però te la devi mettere vicino a te”».
Le mani bucate di Gianni
«Lui era un altro che gestiva i soldi e se li è consumati, aveva la mano bucata pure lui. Il padre l’ha sempre aiutato, però lui gestiva le cose del padre, poi il padre piano piano diceva “Là tienitela e mangia tu”. Mangia tu vuol dire “Lo stipendio che hai prenditelo tu. Se la dai in gestione una cosa, prendi 2.500 euro al mese, 2.000 euro al mese? Prenditeli tu”. Però l’aveva finanziato sempre il padre». Per Milella, Gianni Palermiti collabora con suo padre Eugenio: «Gianni lo manovra il padre, di liquidità, di soldi, Gianni ce li aveva i soldi e se li è consumati, insomma cose sue personali, donne, queste cose qua. Gianni non fa niente senza il padre». E questo vale anche per i guadagni della droga. Secondo gli inquirenti, sia Eugenio Palermiti che suo figlio Gianni avevano un guadagno di 250 mila euro ciascuno grazie ai proventi del narcotraffico.
La prima società
Risale al 2017 la prima concreta (e l’ultima) società di persone costituita tra i vertici dei clan Parisi e Palermiti. E nacque sulla scia di una guerra, poi vinta, con il gruppo capeggiato da Antonio Busco, che aveva mire espansionistiche sullo spaccio del quartiere Japigia.
È sempre Mimmo Milella a spiegare agli inquirenti il funzionamento della “società”: ognuno dei partecipanti versava la sua quota che fungeva da fondo cassa, chiunque dei componenti poteva decidere in autonomia di approvvigionarsi con i fondi versati della cocaina dai fornitori usuali, così come poteva rivenderla ai propri clienti e portare il ricavato nella società, per poi nuovamente ripartirlo.
C’era dunque il fondo cassa: «In quel periodo mettemmo 40 mila euro a testa – spiega – soldi liquidi». Ma la società non fu fruttifera: «Non abbiamo fatto neanche due mesi insieme, non si trovava più niente di soldi e niente, e fu tutto .. In due mesi comprammo una ventina di chili di cocaina. La compravamo a 35 mila euro al chilo, e mettevamo un budget: “Si può dare minimo a 42 e massimo a 45, 50”. Uno poi era bravura sua, però meno di tot non si può dare».
La società fu sciolta, ma rimasero i buoni rapporti fra i due clan: «Ormai si erano calmate le acque – racconta ancora il collaboratore di giustizia – Uscivamo con le mogli, non stavamo sempre attenti». E il denaro guadagnato serviva anche a tenere sotto controllo il quartiere, elargendo somme a chi controllava le strade o a chi apriva le porte di casa alle sentinelle: «Nessuno aveva paura, anzi ci volevano, si sentivano protetti che stavamo sul quartiere, e poi davamo a chi aveva bisogno economicamente, gli facevano comodo 500 euro, le 300, le 700, quelli che erano».