Un silenzio che dura ormai da tre anni. È quello con il quale deve confrontarsi Giuseppe Montani, detto “Panino”, erede del clan Montani e cugino del boss Andrea “Malagnac” detenuto dal 1995 per associazione mafiosa, traffico di stupefacenti e omicidio. Oggi 53enne e affetto da patologie di varia natura, ha un’altra storia da raccontare.
Una storia di diritti, da rivendicare qualunque sia la propria esperienza personale, il passato, gli atti commessi nell’altra vita. Per lui, che terminerebbe di scontare la pena il 4 giugno 2030, è stata richiesta la liberazione anticipata di sette semestri (da 45 giorni ciascuno): i suoi legali, gli avvocati Nicolò Nono Dachille (a Bari) e Massimo Cacciari (a Bologna, dove è detenuto), nel 2019 hanno presentato regolare richiesta per “lesione dei diritti del condannato e risarcimento danni”, ma il tribunale di sorveglianza del capoluogo emiliano non ha mai dato risposta.
«Se il fine della pena è la rieducazione del condannato – spiega Nono Dachille – poiché Montani ha un disturbo di personalità di tipo antisociale, solo cure adeguate e non il carcere puro e semplice possono aiutarlo nel processo di risocializzazione. Diversamente, la pena pura e semplice non garantisce alcun reale effetto di risocializzazione. E, nel caso di specie, le cure sono sempre mancate». Ecco il perché della loro istanza al tribunale.
La storia di Giuseppe Montani, in realtà, è costellata di eventi singolari. Da quando, ancora 32enne, decise di collaborare con la giustizia, raccontando all’allora sostituto procuratore antimafia, ora Governatore pugliese Michele Emiliano, fatti che riguardavano reati da lui stesso commessi negli anni dal 1993 al 1997, quando fu arrestato nell’operazione “Marte”.
Montani, imputato per associazione mafiosa, traffico e spaccio di stupefacenti, detenzione di armi, un tentato omicidio e due omicidi, all’epoca era affiliato ai fratelli Raffaele e Donato Laraspata (capi dell’omonimo clan, ormai ridotto a cenere), suoi “compari di matrimonio”, grazie ai cruenti fatti di sangue commessi. Era stata particolarmente rapida la sua scalata nel mondo mafioso, fino a ricevere un grado molto elevato, il quinto o il sesto nella scala prevista dal rituale.
Era considerato dagli inquirenti uno dei promotori (assieme a suo cugino Andrea “Malagnacc”) del sodalizio mafioso, che per anni aveva tenuto sotto scacco i quartieri San Paolo, San Girolamo e Bari vecchia. Nel 2012 fu assolto in primo grado nel processo per l’omicidio di Vincenzo Di Leo, avvenuto il 31 dicembre 1991 nell’ambito del conflitto fra clan perché la sua partecipazione al delitto non sarebbe stata adeguatamente provata. L’assoluzione, mai impugnata dall’accusa, è poi passata in giudicato.
Ma il suo pentimento non durò a lungo. Da solo, in località protetta, con legami familiari tagliati di netto (sua moglie aveva deciso la separazione), scelse di tornare sui suoi passi. Da allora, è cominciato il suo percorso detentivo costellato di imprevisti.
Cinque anni fa l’ennesimo: improvvisamente l’Inps smise di erogare la pensione di invalidità da 300 euro per la mancata comunicazione di documenti mancanti. La lettera di richiesta dell’istituto di previdenza gli era arrivata in cella, ma lui non ne aveva compreso fino in fondo l’importanza e l’aveva ignorata.
I suoi legali hanno rinnovato l’istanza ma la pratica è ancora incagliata. Così come, a quanto pare, l’istanza al tribunale di sorveglianza che in tre anni non ha nemmeno fissato l’udienza per la discussione. I due difensori oggi annunciano che torneranno a sollecitare i giudici bolognesi, nel tentativo di dare una risposta, sia pure negativa, ad una richiesta di rispetto dei diritti umani.